Il Caporalato in Capitanata.
Da Giuseppe Di Vittorio ad Yvan Sagnet
È la Tesi di Laurea di Rita Pia Oratore, conseguita presso l’Università di Foggia, Corso di Laurea in Lettere e Beni Culturali.
Ne pubblichiamo un estratto, che punta l’attenzione sul fenomeno del Caporalato, che solo di recente ha trovato una normativa di contrasto.
«Scancèlletece dalla società, pe nui poveretti pietà nun ce ne sta». Così Matteo Salvatore, il più grande cantore sullo sfruttamento – come lo ha definito il cantautore Vinicio Capossela – descriveva la sua gente in «Sempre poveri». Gente che viveva la strada e la fame in una terra di miseria e sfruttamento, il foggiano, la stessa nella quale Giuseppe Di Vittorio intraprese la sua lotta in difesa dei lavoratori. La fatica ed i torti subìti dai personaggi che popolano le sue canzoni, come «Lu furastiero», è oggi quella degli uomini e delle donne che raccolgono pomodori nelle campagne tra San Severo e Rignano Garganico, vittime della ferocia dei caporali. I soprusi e le fatiche che Salvatore raccontava sono le stesse che riemergono come un rigurgito dalle cronache quotidiane. Storie di sfruttamento che affondano le radici in una pratica antica e profondamente radicata: il caporalato. Una parola dietro la quale si nasconde un esercito di invisibili, il cui sangue e sudore bagnano la nostra terra, ma anche un reato “spia”, la punta di un iceberg sotto il quale si nascondono infiltrazioni di poteri mafiosi, contraffazioni alimentari, prostituzione, riduzione in schiavitù.
Ancora oggi nelle campagne del Sud Italia, in particolare nella Puglia settentrionale, esiste un grumo nero che macchia le relazioni tra proprietari terrieri, caporali e braccianti e che sembra essere sopravvissuto ad oltre un secolo di storia e di trasformazioni. Si è creduto che tale metodo di ingaggio della manodopera si fosse attenuato nel tempo, invece, negli ultimi quindici-venti anni è ritornato in forme particolarmente virulente che spesso degenerano in casi di riduzione in schiavitù. Sebbene con l’art. 12 del D.L. 13 agosto 2011 ci sia stata l’introduzione nel Codice penale di un nuovo articolo, il 603-bis, contenente il nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, il caporalato non è ancora culturalmente percepito come pratica delittuosa ma è un fenomeno “strutturale” che fa parte della configurazione del lavoro agricolo nelle campagne italiane, non soltanto quelle meridionali, ma anche quelle del Centro-nord del Paese e di tutta l’Europa mediterranea. Un fenomeno che ritroviamo in agricoltura e in altri settori dell’economia come i servizi, l’edilizia, il badantato, ascrivibile a una economia
sommersa che in Italia si aggira tra i 14 e i 17,5 miliardi. Sono circa 430mila, tra italiani e stranieri, i lavoratori vittima del caporalato, con una crescita, rispetto alla precedente rilevazione, stimata tra le 30mila e le 50mila unità. Sono, invece, 100mila i lavoratori in condizioni di sfruttamento e grave vulnerabilità. Una cifra sottostimata se prese in considerazione le altre forme moderne di caporalato legalizzato, definite “caporalato 2.0”, esercitato con le assunzioni da parte di un’agenzia interinale.
La figura del caporale è fondamentale per il reclutamento della manodopera soprattutto nelle aree con insediamenti abitativi marginali, larghe estensioni di terreno agricolo poco abitate e aziende di dimensioni medio-grandi, come quelle presenti nell’area della Piana del Sele e soprattutto in Capitanata, culla della civiltà contadina, una terra in cui i racconti, l’epica sulle lotte bracciantili di Di Vittorio e sulla sindacalizzazione dei braccianti si perdono nella vuota commemorazione, oggi sostituita dal silenzio dei nuovi schiavi, come quelli che da anni vivono stipati nel Ghetto di Tre Titoli, a tredici chilometri da Cerignola. L’attualità e la drammaticità del fenomeno hanno condotto alla produzione del lavoro di tesi in Storia Contemporanea, dal titolo: “Il Caporalato in Capitana. Da Giuseppe Di Vittorio ad Yvan Sagnet”, discusso lo scorso 5 Aprile presso l’Università degli Studi di Foggia. All’indomani dello sciopero dei braccianti agricoli della masseria Boncuri a Nardò è tornato ad aprirsi il dibattito pubblico sul tema del caporalato e dello sfruttamento lavorativo in agricoltura, specie di quello stagionale. Da allora, una grande mole di inchieste giornalistiche e pubblicazioni ha analizzato il tema, finendo però spesso col banalizzarlo. Di qui, l’esigenza di trattare il tema da una prospettiva più ampia, cercando di raccontare il legame esistente tra la condizione dei braccianti agli inizi del ‘900 e lo sfruttamento dei migranti nelle nostre campagne, creando idealmente ponti tra esperienze di lotta lontane nel tempo, ma vicine nelle cause e nelle aspettative. Animato da tali premesse, partendo da una definizione del fenomeno sotto diversi profili e dai fatti di cronaca dell’ultimo decennio che hanno generato grande clamore mediatico e, per la prima volta, messo in luce le degenerazioni di questa piaga- primo tra tutti la fuga e la denuncia dei tre studenti polacchi dal “Paradise” nell’agosto del 2005- il lavoro di tesi ripercorre le vicende storiche che hanno prodotto l’evoluzione dal caporalato classico a quello globalizzato dei giorni nostri, con particolare riferimento alla Capitanata nella seconda metà del Novecento. A partire da questi anni, infatti, la pratica del caporalato si è progressivamente affermata come attività della criminalità organizzata, volta all’elusione della disciplina sul lavoro e mirante allo sfruttamento illegale ed a basso costo di manodopera agricola. Nell’ultimo Rapporto Agromafie e caporalato, infatti, si fa riferimento ad inchieste della magistratura che svelano infiltrazioni mafiose in settori strategici, come l’import-export e la contraffazione di prodotti agroalimentari fra tutti il pane, il vino, la macellazione e la pesca. Oltre al canale della produzione, le mafie affondano i loro tentacoli anche nel settore della logistica, del commercio all’ingrosso e al dettaglio e nei mercati ortofrutticoli. Da nord a sud- come rileva l’ultimo dossier a cura dell’Osservatorio Placido-Rizzotto- si registrano anche fenomeni di sofisticazione legati all’Italian sounding, così come il nuovo intreccio tra agromafie ed energie rinnovabili.
D’altro canto, il legame delle mafie con l’agricoltura- come sottolineato da Maurizio De Lucia, magistrato della Direzione nazionale antimafia- non è un fenomeno recente ma ha radici storico-culturali antiche poiché il fenomeno mafioso si è originato proprio nelle campagne. Dagli anni’60 del secolo scorso, le mafie hanno cominciato ad investire anche in altri settori economici come l’edilizia ma quello agricolo ha continuato a rappresentare il principale business per le organizzazioni mafiose radicate sul territorio che oggi operano mediante estorsioni e l’imposizione di forniture alle imprese agricole, fino al tentativo di espropriazione dell’impresa stessa su tutto il territorio nazionale, anche nelle aree più floride del Nord come Lombardia, Piemonte, la provincia di Bolzano, Emilia-Romagna e Toscana, per un totale di 80 distretti agricoli con le stesse pratiche di sfruttamento. Nell’accezione originaria del termine, il caporalato era un «sistema informale di organizzazione del lavoro agricolo
temporaneo» svolto da braccianti inseriti in gruppi di lavoro, le cosiddette «squadre», che contavano da pochi individui fino a diverse centinaia. Una forma antica di reclutamento della manodopera a basso costo per le prestazioni agricole presso i proprietari terrieri e società agricole, in cui il caporale agisce come un vero e proprio
mediatore illegale di manodopera che, oltre ad ingaggiare i braccianti, ne governa e coordina l’attività secondo le richieste dell’imprenditore agricolo, organizza i tempi e le modalità di lavoro, stabilisce il compenso degli operai e trattiene per sé una parte che gli viene corrisposta dal proprietario o dai braccianti stessi, vere e proprie tangenti imposte su ogni paga. Una pratica di intermediazione la cui natura illecita risiede nel fatto che il compenso del caporale viene trattenuto direttamente dalla paga del bracciante e nell’arbitrarietà con cui il caporale decide chi lavora e chi no, rendendo quest’ultimo un elemento ricattabile. I caporali, però, come è bene ricordare, non sono nati con la manodopera straniera ma hanno avuto origine alla fine dell’800. Pietro Alò, distinguendo il caporale dall’antico massaro o fattore, l’amministratore della fattoria, l’uomo di fiducia del proprietario, ne rintraccia l’antenato nella figura dell’ antiniere, avente in comune con il caporale le buone capacità organizzative che lo distinguono dagli altri semplici operai, ma distinto da quello per il fatto che svolgeva il proprio compito direttamente per conto, appunto, dell’azienda agricola, mentre il caporale dei tempi più recenti compie “in proprio” il servizio per l’azienda. Tra il caporalato classico e quello globalizzato dei giorni nostri esistono profonde differenze ma anche le sostanziali analogie. “Un tempo i ‘cafoni’ – come spiega Alessandro Leogrande nel Primo Rapporto Agromafie e Caporalato- condividevano con il caporale il medesimo orizzonte sociale e culturale, la medesima lingua, quasi sempre le medesime contrade. Pur schierati su versanti contrapposti, appartenevano allo stesso paese, o comunque alla stessa provincia, alla stessa regione e, quindi, si stabilivano con il caporale e con il proprietario terriero alle sue spalle rapporti di forza codificati». Oggi, invece, i braccianti stranieri stagionali, insediatisi lontano dai centri abitati, non vivono alcuna forma di integrazione con il tessuto urbano e sociale e tale estraniazione genera la profonda vulnerabilità che alimenta lo sfruttamento più crudo. Come evidenziato da Leogrande, la principale differenza tra vecchie e nuove forme di caporalato risiede nel fatto che «gli ambiti di sfruttamento, minaccia e ricatto sono divenuti sempre più capillari nelle varie sfere della vita quotidiana dei lavoratori agricoli che dipendono esclusivamente dai caporali, non avendo altre reti sociali dense a cui far riferimento». Eppure, tra passato e presente ci sono anche profonde somiglianze. Ancora oggi quel cumulo di fame, soprusi, sotto-salario e repressione sistematica delle sommosse che aveva caratterizzato la civiltà contadina grava su tanti lavoratori della terra. Leggendo le testimonianze del passato raccolte in “La memoria che resta. Vita quotidiana, mito e storia dei braccianti nel Tavoliere di Puglia” di Giovanni Rinaldi e Paola Sobrero, Edizioni Aramirè, emerge come la giornata-tipo di un bracciante del XXI secolo sia molto simile a quella di un bracciante dei primi del Novecento, poiché – come sottolinea Leogrande- «l’universo materiale, la fame, l’assenza di acqua, l’inospitalità dei casolari, i metodi del dominio ancora oggi sono i medesimi». Anche ai primi del Novecento, il Tavoliere era un’area di
immigrazione e il lavoro agricolo era strettamente intrecciato ai flussi migratori, sebbene si trattasse di flussi non globali ma intraregionali o interregionali, che in
molti casi, come avviene oggi, rendevano conflittuali le relazioni tra lavoratori locali e forestieri. Di Vittorio intuì che il lavoro migrante è un elemento strutturale dell’agricoltura stagionale e che ogni forma di organizzazione sindacale ne avrebbe dovuto tenere conto ma soprattutto, per primo, difese il diritto di sciopero, quale mezzo veramente efficace per far valere i diritti dei lavoratori, per affermare la potenza e l’indispensabilità della loro funzione sociale e
l’integrità della personalità umana. Cinquant’anni dopo, a raccogliere l’eredità del sindacalista cerignolano è “l’eroe qualunque”, come lo ha ribattezzato Roberto Saviano- il ragazzo africano che si è ribellato ai caporali del Sud: Yvan Sagnet. Camerunense, classe ’85, è stato il leader della più grande rivolta auto-organizzata di braccianti stranieri in Italia, nella masseria Boncuri di Nardò, nell’estate del 2011, tra i primi ad ‘aprire il vaso di Pandora’ sul caporalato e lo schiavismo nelle campagne pugliesi. Uno dei risultati più importanti della rivolta della Masseria Boncuri, del clamore mediatico generato, dell’inchiesta della magistratura e dei conseguenti arresti, è stato il riconoscimento giuridico del reato di caporalato, riformulato dalla legge 29 ottobre 2016, n. 199 che ha reso più efficace l’azione di contrasto al fenomeno, modificando il quadro normativo penale e prevedendo misure di sostegno per i lavoratori stagionali in agricoltura.
Se «il caporalato in agricoltura è un fenomeno da combattere come la mafia» – come ha dichiarato il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina all’indomani dei drammatici casi di braccianti morti nelle campagne pugliesi nell’estate del 2015 -, «la lotta non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma – amava ripetere il giudice Paolo Borsellino – un movimento culturale e morale che coinvolga tutti, e specialmente le giovani generazioni». Alla luce di tale riflessione, l’obiettivo di questo lavoro di tesi è contribuire, seppur in minima parte, a muovere una operazione culturale che rompa la cappa di vulnerabilità ed invisibilità nella quale vivono le vittime di sfruttamento sul lavoro. Dall’indagine è emerso che soltanto un’approfondita conoscenza storica del fenomeno, delle sue cause, dinamiche ed effetti, può consentire di ridisegnare nuove forme di analisi e di intervento e che l’intera comunità civile ha il dovere d’interrogarsi, di andare oltre il fremito d’indignazione, per scrutarsi fino in fondo e cominciare, magari, anche a darsi delle risposte per trovare nuove ed efficaci soluzioni a tale endemica piaga sociale ed economica.