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La Puglia del vino è anche kasher di Luciana Doronzo

pubblicato il giorno 03/04/2015
Spunti di Riflessione Vitivinicolo

di Luciana Doronzo

Durante l’ultima edizione di Lech Lechà – Settimana di Arte, Cultura e Letteratura Ebraica, un mese fa a Trani, non sono mancati approfondimenti legati alla gastronomia kasher, rigida nel rispetto di procedure riguardanti oltre alla provenienza  delle materie prime, anche il trattamento e  la  preparazione  dei prodotti.

Alcune di queste  procedure riguardano specificamente il vino, bevanda che ha un importante ruolo nella cultura ebraica sia sotto il profilo strettamente alimentare che religioso. La parola ebraica “Kasher” o “Kosher” significa appunto conforme alla legge, consentito cioè da regole millenarie presenti nei testi sacri all’Ebraismo e seguite dagli ebrei di tutto il mondo. Esiste infatti un divieto di bere vino o cucinare con aceto di vino che non sia supervisionato dal Rabbino. Anche il brandy e la grappa devono essere ottenuti secondo le regole di produzione e consumo alimentari ebraiche (koshrut).

Ciò è da collegarsi soprattutto al fatto che il vino per la religione ebraica è legato alla santificazione del Sabato (il kiddush, la santificazione sul vino che si fa il venerdì sera, suggella i kiddushin, l’unione con lo shabbath e con Dio stesso) e delle Festività che ruotano intorno alla vita degli ebrei, ed ecco perché l’iter per la sua produzione presenta determinate peculiarità. Per produrre vino kasher occorre coinvolgere un rabbino enologo certificatore e tutta l’attività che viene svolta in cantina deve essere affidata ad ebrei osservanti. Il rabbino, durante l’intera fase di produzione controlla che tutto sia conforme alle leggi della Torah. Per dare un’idea, sia pure molto generale, di cosa questo comporti, possiamo citare quanto scritto in una relazione del Rav dott. Umberto Piperno, rabbino capo della Comunità ebraica di Napoli, il quale spiega come le tecniche attuali non hanno modificato, bensì affinato la produzione del vino, facilitando la produzione del vino kasher.

La prima operazione da fare è la kasherizzazione dei tini, o tank in acciaio attraverso successive operazioni, lavaggio con acqua calda e soda, riempimento e svuotamento successivo nell’arco di settantadue ore per tre volte con acqua fredda. Tubi, pompa ed ogni altro oggetto in inox possono essere kasherizzati con acqua calda e soda, mentre è consigliabile per tubi e guarnizioni in plastica avere una fornitura nuova o comunque dedicata dall’inizio alla fine delle operazioni.

La raccolta dell’uva viene effettuata rigorosamente a mano per evitare che la macchina compia la prima macinatura. Chiaramente non c’è alcun problema nella raccolta a macchina se questa viene operata da un ebreo shomer shabbat. Il camion può essere guidato fino ad un metro dalla vasca: l’ultimo metro e chiaramente l’apertura delle sponde deve essere fatta esclusivamente da mashgichim shomrei shabbat, così come l’innalzamento della cassa per versare l’uva. Da quando l’uva va nella vasca fino alla cottura o all’imbottigliamento ogni operazione deve essere eseguita esclusivamente dai mashgichim. Qualsiasi scambio termico, raffreddamento ecc., dovrà essere eseguito dai mashgichim: allo stesso modo qualsiasi immissione di lieviti, minerali o gas deve essere autorizzata dal Rabbino certificatore tra i materiali rigorosamente certificati, particolarmente se si produce kasher per  Pesach (Pasqua ebraica) è necessario controllare che l’acido citrico e la anidride carbonica siano certificati per la Pasqua.

Ogni volta che i mashgichim lasciano la cantina tutto deve essere piombato, sigillato e firmato con almeno due simanim, da verificare al ritorno. È possibile lasciare il portello in alto leggermente aperto durante la fermentazione chiudendo il tutto con tela molto spessa. Ogni assaggio o spillatura dovrà essere eseguita dal mashgiach evitando che il goi (non ebreo) regga il bicchiere in mano. Con tutte queste fondamentali, pur se dettagliate, accortezze avremo la certezza di avere un vino kasher.

Sono cinque milioni le bottiglie di vino kasher prodotte in Italia, con una importante parte che viene esportata negli Stati Uniti e in Israele. E la Puglia negli ultimi anni ha mostrato particolare interesse per la produzione. Tenute Chiaromonte, di Acquaviva delle Fonti in provincia di Bari, dal 2007 produce 10 mila bottiglie di Emì, un primitivo in purezza. “Per me, dichiara Nicola Chiaromonte, la certificazione kasher è sinonimo di qualità e rigore.L’intero processo produttivo è sotto stretta sorveglianza del rabbinato di Parigi, con manovalanza ebraica. L’Antica Casa Vinicola Leuci di Guagnano, nel Salento,  invece, dal 2013 seleziona una piccola quantità di uve da destinare alla produzione di vini kasher for passover: Terra Guarniani, ottenuto dalla vinificazione di uve di Negramaro, e Montele, rosso IGP Salento, ottenuto dalla vinificazione di uve di Montepulciano. I vini sono certificati Kasher lePesach dal Rabbinato di Napoli e dall’Orthodox Union (N.Y.-USA). La stessa azienda è stata  fornitrice ufficiale  della terza edizione della manifestazione Lech Lechà.

Considerata l’attenzione mostrata dal mercato (i prodotti sono acquistati soprattutto da chi non è di fede ebraica) è facile pensare ad un incremento produttivo che può sfruttare il buon nome e l’immagine positiva che la Puglia enologica ha saputo imporre negli ultimi anni, come dimostrano le tante attestazioni che le aziende di casa nostra vantano nelle più importanti rassegne internazionali.

Ph Luciana Doronzo




Parole-chiave: La Puglia del vino è anche kasher di Luciana Doronzo

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